di Alessandro Coppellotti
La
condizione esistenziale porta chiunque a creare un guscio fatto di
comportamenti abituali, di pose e posture che permettono il vivere
civile, il far parte in qualche modo del mondo. Ma dentro di ognuno
bruciano le passioni, i dolori, le solitudini e il non detto. Nel
corpo, che il tempo trasforma e adatta, alcune parti esprimono più di
altre le necessità comunicative, quelle intenzionali ma anche quelle
troppo forti per essere dominate. L’interiorità fluida, magmatica e
velocemente mutevole, affiora sui volti e sulle mani dove i segni della
gioia e del dolore, del desiderio e della noia modellano continuamente
le carni sommando e sostituendo segnali in un continuo divenire. Il
volto e le mani sono la porta dell’anima, anche di quella che vorremmo
tenere nascosta. Di questo magma interiore si fa espressione l’opera di
Salvatore Cipolla.I gusci di legno polito, eleganti e rispettosi,
decorati ad arte, con giochi cromatici dalla grazia quasi klimtiana,
costringono a forza l’interiorità che erutta nei volti di vetro o
ceramica, che colgono liricamente le passioni, il dolore lacerante o
l’intima sorda sofferenza del vivere.La materia fluidificata o
pietrificata dal fuoco diventa anima, senza veli e senza finzioni.
L’umanità ricreata da Cipolla. ancorché in qualche modo estrema, serve
da specchio a chiunque la incontri.La regale e sorda ambizione dei nani
in trono con quello sguardo assente e cattivo, spietato e insieme
nemico di ogni moto pietoso, con quelle mani nodose e spropositate,
deformi come artigli, fa da contraltare all’urlo, ormai senza fiato,
delle Madri d’Algeria, senza mani per difendere le loro creature e
senza più un dio che le aiuti e che è servito per armare i carnefici. Un dio forse troppo pesante o troppo lontano è quello
dei cardinali imbozzolati nei paramenti sacri lussuosamente ricamati
nel legno, pesanti e stretti intorno a volti quasi in decomposizione,
nei quali sia la terracotta che il vetro sembrano tornare fluidi e
scivolare verso il basso, verso una terra che non riesce più a guardare
al cielo, in un mutismo sbigottito stanco di parole a cui non si crede
più.La stessa stanchezza sembra trasparire nelle vitree sembianze dei
cavalieri, a cui la ricchezza del verde smeraldo o del rosso granato
non riesce a togliere l’intimo desiderio di inazione, la perdita di
fiducia nell’atto di forza, nella reale possibilità di cambiare le
cose. Le rughe si imprimono nella materia fluida e contrastano la
superficie netta dell’abito che fa tutt’uno col cavallo e le armi, un habitus ormai
irrinunciabile, divenuto un’immagine pubblica, baldanzosa e aggressiva,
adesso impossibile da togliere.Non meno costrittivo è il guscio delle
anziane dame con la pappagorgia di vetro e il cappellino, condannate ad
una senescente grazia mondana, in una sorta di interna decomposizione
dell’antica coscienza di essere state un tempo avvenenti. La stessa
grazia che diventa fatua e attuale nei giovani bacchi inghirlandati di
pampini, fusi insieme al volto e alle mani nei vetri iridescenti,
fluidi di una interiorità mobile tutta esteriore, ma... che si fugge
tuttavia.La ripetizione degli schemi non riesce a far divenire astratte
le interiorità: ciascun personaggio si mantiene individuo, proprio in
forza delle sue intime pene, anche se la società gli attribuisce un
ruolo specifico e una divisa codificata e riconoscibile.I brani di
umanità lacerata e sofferta sono incapsulati ed esaltati dalla materia
preziosa e aulica come in reliquiari antichi nei quali eleganza e
ricchezza cromatica non ottundono, ma amplificano il senso del
martirio: un sacrificio sempre vivo e pronto a scorrere come il sangue
di San Gennaro.Tutti quei volti ci appaiono come se ne fosse stata
appena strappata una maschera dalla carne viva, la stessa di ogni
essere umano, e non è possibile non farne specchio, non costringersi a
guardare dentro noi stessi, consci della stessa materia fluida e
infuocata, magari dietro il sorriso di circostanza o l’espressione
colta e interessata da sfoderare visitando la mostra. Quelle stesse
mani adunche o contratte ci frugano dentro la coscienza, ci tirano
fuori l’anima e ci costringono a silenziose confessioni, a atti di
dolore nei nostri e negli altrui confronti.Coscienza, invece, sembrano
non avere gli animali di Cipolla, partecipi della sofferenza del mondo,
ma senza introspezione, che rispondono con la fuga o con l’urlo dalle
bocche dai denti aguzzi e con gli occhi vitrei sbarrati, paralizzati da
un terrore incompreso. Tutto questo valica la voglia del riconoscere
motivi ispiratori e affinità formali dalle dolorose ceramiche
precolombiane ai compianti di Mazzoni e Nicolò dell’Arca, alle paste
vitree del Vicino Oriente.Il piacere estetico, la carezza offerta dai
materiali e dalle lavorazioni preziose e antiche non riesce a creare
distanza, non salva dal magma introspettivo e, anzi, ribadisce il
contrasto fra il dentro e il fuori, fra il mondo e l’lo. Pare una
dimensione religiosa intensa e nel contempo negata, una denuncia che è
insieme sofferta e senza risposta se non quella che le cose stanno
così, e quale sia il nostro ruolo e la nostra posizione nel mondo, i
nostri volti e le nostre mani non potranno nasconderla.