Salvatore Cipolla

Allo studio di Salvatore Cipolla
di Mario Luzi


Lettera a Salvatore Cipolla
di Vincenzo Consolo


Reliquiari dell’anima
di Alessandro Coppellotti


La terra, i sogni, l’energia vitale e la ceramica espressiva
di Maurizio Vanni

Oltranza figurativa e terrestrità
di Antonio Paolucci


Reliquiari dell’anima

di Alessandro Coppellotti

La condizione esistenziale porta chiunque a creare un guscio fatto di comportamenti abituali, di pose e posture che permettono il vivere civile, il far parte in qualche modo del mondo. Ma dentro di ognuno bruciano le passioni, i dolori, le solitudini e il non detto. Nel corpo, che il tempo trasforma e adatta, alcune parti esprimono più di altre le necessità comunicative, quelle intenzionali ma anche quelle troppo forti per essere dominate. L’interiorità fluida, magmatica e velocemente mutevole, affiora sui volti e sulle mani dove i segni della gioia e del dolore, del desiderio e della noia modellano continuamente le carni sommando e sostituendo segnali in un continuo divenire. Il volto e le mani sono la porta dell’anima, anche di quella che vorremmo tenere nascosta. Di questo magma interiore si fa espressione l’opera di Salvatore Cipolla.I gusci di legno polito, eleganti e rispettosi, decorati ad arte, con giochi cromatici dalla grazia quasi klimtiana, costringono a forza l’interiorità che erutta nei volti di vetro o ceramica, che colgono liricamente le passioni, il dolore lacerante o l’intima sorda sofferenza del vivere.La materia fluidificata o pietrificata dal fuoco diventa anima, senza veli e senza finzioni. L’umanità ricreata da Cipolla. ancorché in qualche modo estrema, serve da specchio a chiunque la incontri.La regale e sorda ambizione dei nani in trono con quello sguardo assente e cattivo, spietato e insieme nemico di ogni moto pietoso, con quelle mani nodose e spropositate, deformi come artigli, fa da contraltare all’urlo, ormai senza fiato, delle Madri d’Algeria, senza mani per difendere le loro creature e senza più un dio che le aiuti e che è servito per armare i carnefici. Un dio forse troppo pesante o troppo lontano è quello dei cardinali imbozzolati nei paramenti sacri lussuosamente ricamati nel legno, pesanti e stretti intorno a volti quasi in decomposizione, nei quali sia la terracotta che il vetro sembrano tornare fluidi e scivolare verso il basso, verso una terra che non riesce più a guardare al cielo, in un mutismo sbigottito stanco di parole a cui non si crede più.La stessa stanchezza sembra trasparire nelle vitree sembianze dei cavalieri, a cui la ricchezza del verde smeraldo o del rosso granato non riesce a togliere l’intimo desiderio di inazione, la perdita di fiducia nell’atto di forza, nella reale possibilità di cambiare le cose. Le rughe si imprimono nella materia fluida e contrastano la superficie netta dell’abito che fa tutt’uno col cavallo e le armi, un habitus ormai irrinunciabile, divenuto un’immagine pubblica, baldanzosa e aggressiva, adesso impossibile da togliere.Non meno costrittivo è il guscio delle anziane dame con la pappagorgia di vetro e il cappellino, condannate ad una senescente grazia mondana, in una sorta di interna decomposizione dell’antica coscienza di essere state un tempo avvenenti. La stessa grazia che diventa fatua e attuale nei giovani bacchi inghirlandati di pampini, fusi insieme al volto e alle mani nei vetri iridescenti, fluidi di una interiorità mobile tutta esteriore, ma... che si fugge tuttavia.La ripetizione degli schemi non riesce a far divenire astratte le interiorità: ciascun personaggio si mantiene individuo, proprio in forza delle sue intime pene, anche se la società gli attribuisce un ruolo specifico e una divisa codificata e riconoscibile.I brani di umanità lacerata e sofferta sono incapsulati ed esaltati dalla materia preziosa e aulica come in reliquiari antichi nei quali eleganza e ricchezza cromatica non ottundono, ma amplificano il senso del martirio: un sacrificio sempre vivo e pronto a scorrere come il sangue di San Gennaro.Tutti quei volti ci appaiono come se ne fosse stata appena strappata una maschera dalla carne viva, la stessa di ogni essere umano, e non è possibile non farne specchio, non costringersi a guardare dentro noi stessi, consci della stessa materia fluida e infuocata, magari dietro il sorriso di circostanza o l’espressione colta e interessata da sfoderare visitando la mostra. Quelle stesse mani adunche o contratte ci frugano dentro la coscienza, ci tirano fuori l’anima e ci costringono a silenziose confessioni, a atti di dolore nei nostri e negli altrui confronti.Coscienza, invece, sembrano non avere gli animali di Cipolla, partecipi della sofferenza del mondo, ma senza introspezione, che rispondono con la fuga o con l’urlo dalle bocche dai denti aguzzi e con gli occhi vitrei sbarrati, paralizzati da un terrore incompreso. Tutto questo valica la voglia del riconoscere motivi ispiratori e affinità formali dalle dolorose ceramiche precolombiane ai compianti di Mazzoni e Nicolò dell’Arca, alle paste vitree del Vicino Oriente.Il piacere estetico, la carezza offerta dai materiali e dalle lavorazioni preziose e antiche non riesce a creare distanza, non salva dal magma introspettivo e, anzi, ribadisce il contrasto fra il dentro e il fuori, fra il mondo e l’lo. Pare una dimensione religiosa intensa e nel contempo negata, una denuncia che è insieme sofferta e senza risposta se non quella che le cose stanno così, e quale sia il nostro ruolo e la nostra posizione nel mondo, i nostri volti e le nostre mani non potranno nasconderla.